Rarotonga - Isole Cook - febbraio/marzo 2006
Stavo osservando, 20 metri più su, i cocchi aggrappati alla palma che li aveva generati e, vedendone altri ingialliti a terra, mi chiedevo quante vittime abbiano mai causato : quanti decessi da noce di cocco? Cosa succede ad un cranio umano quando viene a contatto con una noce di cocco che cade perpendicolarmente su di esso dall’altezza di 20 metri? Ma se fosse così pericoloso come mai anche i locali si sdraiano con noncuranza sotto le palme? E se invece che sulla testa uccidendoti sul colpo, una noce di queste ti cade su un piede mentre sei sdraiato su una spiaggia deserta a chilometri dal villaggio più vicino che tra l’altro non ha nemmeno un’infermeria e le uniche medicine sono quelle lasciate dagli americani durante la guerra nel Pacifico??? Bè, in questo caso forse è meglio non pensarci,vada come vada!
Allora mi ridistendo sulla sabbia bianca della spiaggetta di Muri,non più lunga di quattro metri con la bassa marea; di fronte a me, all’interno della laguna, quattro isolotti : Motutapu, Oneroa, Koromiri (che mi sta proprio di fronte) e Taakoka; quest’ultimo è quello per cui provo più attrazione, infatti rimane più distante dai suoi tre fratelli maggiori e, a differenza degli altri, è di origine vulcanica.
E’ molto scuro, Taakoka, pietroni lavici tutt’intorno, neri, frammentati, niente sabbia o poca poca comunque, la giungla lo ricopre completamente ed il suo profilo, con le palme spennacchiate in cima, rende magistralmente l’immagine che molti di noi hanno delle isole del Pacifico Meridionale: palme, cielo azzurro, acqua trasparente, ecc…Taakoka è indubbiamente il più misterioso dei tre, durante la mia permanenza a Rarotonga mi sorprenderò più volte ad osservarlo minuziosamente dalla spiaggia di Muri e da altre angolazioni.
Lungo steso tra le palme, ogni tanto dò uno sguardo ai cocchi lassù e lancio loro un’occhiataccia come per far sapere che li tengo d’occhio, che non mi facciano brutti scherzi, che non sono interessato ad una sperimentazione empirica sull’effetto delle noci di cocco in caduta libera su un corpo umano.
Dopo una decina di minuti al sole, il turista medio in visita alle isole Cook (quindi anglosassone bianchiccio, grassoccio, scocciato e rivestito di crema solare ad alta protezione) dà forfait, si alza e si muove all’ombra, un Romagnolo medio può resistere almeno il triplo del tempo senza protezione, ma poi i raggi ultravioletti hanno la meglio e ci si sposta tutti in cerca d’ombra.
Così trovo riparo sulla terrazza della Guest House insieme ad un paio di ragazze che dividono la stanza con me, si ride, si scherza, ma non mi trovo molto in sintonia.
Un’Austriaca mi chiede se vengo da Rarotonga o da un’altra isola, m’ha visto così scuro e mi crede un Maori, le rispondo che vengo da ‘Atiu ma laggiù c’è stata una tempesta e tutto è distrutto e allora sono venuto nella capitale in cerca di fortuna.
C’è un Americano, molti (troppi) Australiani, poca Europa, ma ciò che mi disturba è il fatto che nessuna delle persone della Guest House mi incuriosisce, mi sento di non avere nulla da condividere con loro, ma sono arrivato da solo e stare da solo non mi preoccupa di certo ma mi piace incontrare gente che abbia delle storie da raccontare, viaggiatori o locali non mi interessa, purchè non debba sentire le solite chiacchiere da backpacker Inglese che s’è sparato tutti i vaccini possibili, è drogato di tavolette antimalaria e fa colazione con una fetta di pane tostato e una confezione non scaldata di spaghetti in lattina!!!
Basta non avere fretta e soprattutto non aspettarsi mai nulla e le situazioni più emozionanti si faranno vivere e le persone più interessanti verranno da te.
E’ molto caldo, umido, guardo in qua e in là, Taakoka è sempre lì, d’improvviso scorgo una figura sulla spiaggia che è appena sbucata da dietro un pietrone di lava raffreddatasi da qualche migliaio d’anni.
Lontano da me centocinquanta metri distinguo la sagoma di un uomo, molto magro con un bastone in mano per aiutarsi a camminare, ha la barba lunga diverse decine di centimetri, bianca, la carnagione molto scura ed è nudo! No, analizzo meglio, ha un perizoma minimale e una sacca a tracollo, nient’altro. Continua a camminare ed io lo osservo con maggiore dovizia : è Robinson Crusoe!
Allora dev’esserci il suo Uomo Venerdì da qualche parte, mi dico scherzosamente.
Mi passa di fianco, mi guarda con un sorriso sdentato dei più belli che abbia mai visto, ha gli occhi piccoli piccoli e azzurri come il cielo del pacifico e sembra che abbia raggiunto l’isola dopo almeno quattro mesi nell’oceano a bordo d’una zattera, faccio un cenno di saluto e lui contraccambia mostrandomi di nuovo la manciata di denti che ancora non l’hanno lasciato ma presto lo faranno.
Due ragazze inglesi coi fianchi lacerati dalla famigerata English Breakfast lo guardano con disgusto e disapprovazione, si dicono qualcosa sottovoce e ridacchiano, io provo gli stessi identici sentimenti…ma verso di loro.
In effetti tutti lo guardano, magari anche solo un’occhiata veloce, tutti si girano ma nessuno lo saluta, forse per timidezza, forse perché il “naufrago” è troppo strano, troppo diverso e soprattutto indossa quel perizoma che, devo ammettere, non lascia spazio all’immaginazione.
Lui non ci fa caso, si capisce che non gli importa un bel niente di ciò che la gente può pensare o vedere, mantiene quel sorriso beato che ho rivisto poi nelle statue del Budda nei templi del Sud-Est Asiatico e si infila nella sua camerata.
Come ogni giorno da molto tempo il Sole si preparò a tramontare ed io mi diressi dall’altra parte dell’isola, ad ‘Arorangi, per assistere alla tragedia di colori che ci regala la luce quando si tuffa nell’Oceano Pacifico.
Percorrendo l’unica strada asfaltata dell’isola, la Ara Tapu (o Coastal Road) che segue la costa, si gode di scorci emozionanti e si passa vicino alle case dei locali, alcune in muratura ma per lo più semplici baracche di legno e lamiera, facili da ricostruire in caso di cicloni o tempeste.
I Maori sono un bel popolo malgrado molti fisicamente si lascino un po’ andare; come disse il pastore della Matavera CICC (Cook Islands Christian Church) dopo avere offerto agli stranieri che avevano assistito alla messa un banchetto da re : “Mangiate tutto ciò che volete, se avanza qualcosa portatelo con voi. Non preoccupatevi, noi abbiamo tanto cibo, gli abitanti delle Isole Cook non moriranno mai di fame…noi moriamo perché mangiamo troppo!”.
Niente di più vero, molti degli abitanti sono sovrappeso, è un problema, questo, esteso a molte isole del Pacifico, c’è chi incolpa le troppe importazioni di beni e l’introduzione di moderne attrezzature per la pesca e l’agricoltura ed il conseguente calo dell’attività fisica lavorativa, chi invece crede più semplicemente che la vita su un’isola Polinesiana renda le persone più spensierate e rilassate e meno adatte a lavori frenetici, quale sia la causa, il risultato è lo stesso : molti Maori sono grassi e si piacciono così.
Il tramonto non mi deluse, rimasi qualche minuto a riflettere guardando il bianco frastuono delle onde che s’infrangono sulla barriera corallina nel nero della notte oceanica.
Sull’isola, essendoci appunto una sola strada asfaltata, esistono solo due linee di autobus: una gira in senso orario, l’altra in senso antiorario. Così l’indomani di buonora salgo sul Counter-Clockwise Bus per andare a fare un po’ di spesa al Punanga Nui Market, il mercato della capitale delle Isole Cook: Avarua.
Il biglietto costa un Dollaro Neozelandese, ma il conducente accetta anche Dollari Americani dai turisti Statunitensi dicendo sorridente : “Certo che li accetto, un dollaro per un dollaro, non c’è differenza!”. La differenza c’è visto che il Dollaro Neozelandese vale molto meno di quello Americano, ma trovo giusto che il Maori approfitti dell’ignoranza dei turisti, soprattutto se Americani.
Al mercato, tra l’odore acre di frutta marcia, si vende di tutto un po’ e si regalano sorrisi, quei sorrisi Maori stampati su faccioni paffuti di una simpatia irresistibile, impossibile non scoppiare a ridere incrociando lo sguardo d’un Maori sorridente.
Giro e rigiro per ore, poi quando il sole brucia a picco sulle teste e l’umidità si fa insopportabile riprendo il bus, assisto ancora al giochetto del “dollaro per dollaro” e arrivo alla Guest House.
Lì vedo Robinson Crusoe sulla terrazza da solo che legge un libro e, preferendolo alle chiacchiere da surfista Australiano, mi avvicino curioso come una scimmia, come se sapessi che quell’ometto ha molte cose da raccontare.
Scambiamo qualche battuta, gli offro del latte di cocco e qualche banana che lui gradisce molto, ogni tanto si lamenta dei suoi compagni di stanza, definendoli giovani Americani maleducati e irrispettosi: “Entrano ed escono coi piedi sporchi e bagnati, usano la toilet della mia camera anche se dormono in un’altra! Io non capisco, NON CAPISCO! Io non so niente di questi backpacker, in India non è così, ho la mia camera e faccio ciò che voglio!”.
Mentre parla in un inglese incerto non posso evitare di guardarlo in faccia e studiarne i lineamenti: deve avere più di sessant’anni, la faccia tranquilla nonostante le lamentele, il bastone poggiato al suo fianco è intarsiato con strani riccioli e sulla sommità sono legate delle cordelle con perline e conchiglie, al collo porta un medaglione col simbolo della pace che ha anche tatuato sul petto, un altro tatuaggio sbiadito è sul braccio sinistro e raffigura Topolino che fuma una canna : “Questo è il mio preferito”, afferma, “l’ho fatto a San Francisco nel ’67!”.
Poi mi mostra il suo tesoro: un sacchetto di conchiglie che ha trovato in spiaggia, mi colpiscono in particolare delle strane conchiglie lunghe a forma d’ago verdi, bianche e rosa, da una parte a punta dall’altra tondeggianti con un puntino nero simile ad un occhio (scoprirò poi che sono aculei di un riccio di mare che con la corrente sbattono tra loro e producono una melodia armoniosa); nel sacchetto c’è un altro sacchetto e lui me lo mostra sorridendo: “Questa è Marijuana che avevo dimenticato in un angolo dello zaino chissà quando e l’ho portata fin qui, pensa se la trovavano all’aeroporto!!!”, mentre mi fa questa confessione la sua faccia si illumina di soddisfazione.
Dopo altri cinque minuti di chiacchiere sulla terrazza fronte mare, l’ometto si congeda dicendo che è vecchio e vuole riposare e che quando avrò la sua età capirò la vera necessità del riposo. Ci salutiamo.
L’unico modo per attraversare l’isola da Nord a Sud è con le proprie gambe seguendo il Cross-Island Track che parte poco fuori Avarua e termina alle Wigmore’s Waterfall quattro ore dopo passando per la sommità del Te Rua Manga (413 m slm), un sentiero non segnato tra la giungla tropicale con, a tratti, il fango fino alle caviglie.
Poco dopo l’alba raggiungo la strada e, non essendo ancora gli autobus in servizio, mostro il pollice da autostop già rodato in Nuova Zelanda; passa una manciata di minuti e un pick-up della polizia si ferma.
Abituato al genere di polizia che vieta di tutto un po’, vedendo l’agente rallentare penso velocemente ad una scusa, ma la vista del faccione Maori mi tranquillizza all’istante: sarà proprio lui a “scortarmi” sino all’inizio del sentiero convincendomi che la vita su un’isola polinesiana offra un approccio differente verso il prossimo rispetto alla diffidenza occidentale.
Il sentiero, come anticipato, parte da Avarua. Scendo e saluto l’agente che non è un semplice agente bensì il capo del Dipartimento di Polizia delle Isole Cook che indossa la camicia blu della divisa con un paio di bermuda viola a fiorellini bianchi. Decisamente originale.
Cammino per i primi dieci minuti su una strada di terra rossa tra belle villette nascoste tra alberi mai visti prima, poi comincio a sentire in sottofondo un ronzio e di lì a poco scorgo alla mia destra l’origine del ronzio che adesso s’è trasformato in un rombo assordante: è il generatore a gasolio che fornisce la corrente elettrica non solo a Rarotonga ma anche alle altre isole abitate.
E’ immenso, puzza e urla, è brutto, non c’entra nulla colle palme e gli orti di pomodori che gli stanno attorno ma purtroppo è l’unico modo che gli isolani abbiano trovato per godere degli agi della corrente elettrica. Il gasolio arriva una volta al mese dalla Nuova Zelanda il cui governo ne sostiene le spese essendo le Isole Cook un protettorato dei Kiwi.
Me lo lascio alle spalle e provo a dimenticarlo, continuo a camminare nella giungla, il sentiero non è molto difficile se non a tratti a causa del fango, conquisto la cima del Te Rua Manga dopo tre ore e mi gongolo lì sopra godendo della vista a trecentosessanta gradi concedendomi una pausa sigaretta.
Mi rimetto in moto e dopo aver incontrato strani insetti tra cui dei millepiedi giganti che avevo visto solo nei documentari in tv e dopo essermi perso almeno due volte, giungo alle Wigmore’s Waterfall, agognata meta visto che sono sudatissimo e infangato dalla testa ai piedi.
Alcuni giovani Maori si sfidano in tuffi acrobatici, scambiamo qualche battuta, dò un paio di bracciate in acqua, temporeggio davanti a questo spettacolo naturale poi i giovani Maori mi accompagnano alla Guest House in motorino. Nessuno di loro lavora: da mangiare ce l’hanno, pescano, vanno alla cascata, girano per la laguna colla loro canoa, di andare in Nuova Zelanda in cerca di fortuna come fanno molti loro connazionali non se ne parla proprio, stanno benone e allora perché lavorare? Il ragionamento non fa una piega.
Ho fatto scorta di birre Cooks imbottigliate in bottiglie Heineken perché qua si ricicla tutto (non c’è spazio per una discarica) e la sera vado a sedermi con il vecchio sulla terrazza.
Questa volta mi presento e scopro che si chiama Lasse, è Svedese di un piccolo paese a sud di Stoccolma. Beve tanta birra e fuma una sigaretta dietro l’altra dispiacendosi di non poter fumare solo erba perchè non ne ha trovata. Parliamo. Vicino a noi alcuni anglosassoni fanno rumore, le ragazze mi ricordano il pollaio a casa d’un mio amico in Italia, i ragazzi gonfi di muscoli dicono stupidaggini e si fanno sempre più grossi, il solo sentirli parlare comincia a disturbarmi seriamente, molti di loro sono a migliaia di chilometri da casa e sono riusciti a ricreare lo stesso ambiente, a fare le stesse cose, a parlare la stessa lingua,a stare solo con gente del loro paese e a rivolgersi ai non anglosassoni aspettandosi che l’inglese sia parlato e capito da tutti indipendentemente dalla provenienza, non accettano altre lingue, altri comportamenti, il loro modo di fare è quello giusto, gli altri sono diversi, strani e da cambiare.
Me ne convinco sempre di più di minuto in minuto; una ragazza conosciuta il giorno prima, Americana, mi invita al loro tavolo, poi dice qualcosa, non capisco, troppo veloce, se per esempio una parola è composta da cinque lettere mi sembra giusto pronunciarle tutte e cinque, lei no, ne dice due strascicate dal suo forte maledettissimo accento, come se io parlassi in dialetto Romagnolo ad un turista Americano che sta studiando l’Italiano. Lo trovo irrispettoso, mi irrito, non ne voglio sapere di unirmi a loro : “No, grazie…io sto con Lasse” le dico gesticolando all’ Italiana indicando il nuovo amico. L’ha capita e se ne va. La seguo con lo sguardo, dice qualcosa ai suoi amici e quando ricomincia a chiocciare riprendo il mio colloquio con Lasse.
Poco più che ventenne si imbarcò su un cargo e navigò per gli oceani, un lavoro molto duro con poche soddisfazioni, a parte il poter assistere ad ogni alba e ad ogni tramonto di ogni singolo giorno sul mare, dopo cinque anni di tale vita, il giovane Lasse decise di smettere di lavorare. Erano gli anni sessanta ed il movimento Hippy al suo apice accoglieva discepoli da tutto il mondo tra cui appunto Lasse il quale raggiunse San Francisco, in California, dove migliaia di giovani hippies si incontravano, si conoscevano, si iniziavano alla droga e poi da lì si spostavano ancora soprattutto verso l’India e il Nepal, paese visto come fulcro della spiritualità ed in particolare dove molte delle droghe illegali in occidente erano legali e di facile reperibilità.
Lasse torna in Europa per ripartire quasi subito; da solo, in autostop, attraversa Francia, Germania, Austria, Ungheria, Romania, Bulgaria, Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan e finalmente arriva in India.
Si sofferma a parlare dell’ospitalità Afgana (inimmaginabile al giorno d’oggi per chi non c’è mai stato e tutto ciò che sa dell’Afghanistan l’ha imparato dalla tv), della gente che lo accoglieva nella loro tenda ed offriva cibo ed oppio, delle montagne verdi ed i sorrisi gentili.
Sull’India, Lasse lo Svedese potrebbe scrivere un libro, dopo la prima volta c’è tornato tutti gli anni a seguire o quasi, per vivere vendeva hashish ai turisti, si è convertito all’Hinduismo, una religione che non può spiegarmi perché “E’ troppo, è tutto” dice.
E’ diventato un Sadu, un uomo che non possiede nulla, vive di elemosina, indossa stracci, si affida al buon cuore della gente.
Una volta un cane l’ha morsicato e, vista la sua condizione di Sadu, è stato portato in ospedale e curato gratis.
Io gli chiedo tutto, la mia curiosità forse sta andando oltre le buone maniere.
Lasse non è mai stato in Italia e nemmeno ha viaggiato in Svezia, il suo paese, dice che lo tiene per quando non potrà più camminare e dovrà usare la sedia a rotelle. Ridiamo.
Ora che è vecchio torna tutte le estati a casa, dove vive in una casa/baracca nel cui giardino coltiva Marijuana. Afferma che lo conoscono tutti in Svezia, ne ho la conferma quando tornato in Nuova Zelanda incontro un gruppo di Svedesi che lo conoscono.
I suoi compaesani, amandolo e rispettandolo, due anni prima fecero una colletta per pagargli il viaggio in India, lui sorride e mi confessa che non ha mai dato niente a loro in cambio se non raccontare la sua vita…come se fosse poco!
Non gli piace molto Rarotonga, ammette che sia un posto meraviglioso dal punto di vista naturale, ma ci sono troppi turisti che lui non capisce e troppi Surf People, come definisce con sdegno gli Australiani palestrati che stanno nella Guest House.
Mi trovo in qualche modo d’accordo ed allora brindiamo e brindiamo fino a notte fonda e lui non smette mai di raccontare fino a che non si congeda, vista l’ora, ricordandomi quanto sia importante il riposo per un vecchio come lui.
Agli occhi d’un occidentale molte cose paiono strane sull’isola di Rarotonga, una di queste è il rapporto con la morte che gli isolani hanno: girando in lungo e in largo per la strada asfaltata e arrampicandosi su per le strade sterrate che puntano al centro dell’isola si nota nei giardini di molte case un piccolo cimitero, ossia qualche lapide antica o recente, magari ricoperta di erbacce, magari distrutta, comunque vicina alle case.
Ogni famiglia infatti crea nel proprio terreno un cimitero per familiari e amici cari, la morte non viene nascosta come da noi tra alte mura isolate.
Ciò è dovuto a due motivi principali: la scarsità di spazio (l’isola ha una circonferenza di 54 Km) non consente, così come la costruzione di una discarica, di erigere alcun camposanto, eccetto quelli piccoli già esistenti, e le origini animiste dei Maori seppur mischiate al cristianesimo, consentono un approccio di accettazione verso la morte simile a quello Buddista e Induista.
Sono anche piacevoli da ammirare, queste lapidi, ci vuole un certo gusto del macabro, ma talune sono vere opere d’arte di corallo bianco intarsiate in madreperla: dei monumenti alla morte.
Altra particolarità dell’isola: il Parlamento, perché Avarua è la capitale delle Cook e pertanto vi risiede il Parlamento.
Eretto nel 1974 come ostello per ospitare i costruttori Neozelandesi dell’aeroporto, gli uffici del Primo Ministro e degli altri ministri sono situati nelle vecchie camere da letto; da fuori, se non ci fosse scritto su un cartellone di compensato “Parliament of the Cook Islands”, appare all’osservatore come un qualsiasi capannone bianco col tetto di paglia e legno.
La mia partenza è ormai imminente, diciassette giorni a Rarotonga sono sembrati un’infinità, al ristorante Paulina’s Polinesian Restaurant, che è tra l’altro un ottimo ristorante con pochi piatti ma buoni e a buon prezzo in centro ad Avarua, fu proprio Paulina in persona, una grassa Maori con le mani sempre sporche e il sorriso tatuato in faccia, a dirmi che in diciassette giorni sull’isola avrei potuto sposarmi, fare un figlio e divorziare volendo sottolineare la lentezza delle giornate in un posto perso in mezzo a migliaia di chilometri quadrati d’acqua.
Alla Guest House, Lasse è sempre sul terrazzo a bere e fumare, mi avvicino per avvisarlo della mia partenza l’indomani, lui si compiace per aver trovato in spiaggia la statuetta di Tangaroa, la divinità Maori, il padre degli Dei per molte religioni Polinesiane, e ridiamo per le enormi dimensioni del pene della statuetta lignea.
Il vecchio Lasse partirà il giorno dopo di me ma dice che ha già salutato il suo bastone che l’ha aiutato qui sull’isola gettandolo nell’oceano, io mi meraviglio a sentire un uomo che ringrazia un bastone, non so se sia un esagerato rispetto per la natura o una semplice stupidaggine, per certo fa parte del personaggio di Lasse così ricco di storia e spiritualità.
E’ diretto in Nuova Zelanda anch’egli, ma nell’Isola del Sud, io invece torno ad Auckland la piovosa.
Pertanto spera di vedermi un giorno in India e lo spero anch’io.
Ci facciamo compagnia per qualche ora, poi io, ubriaco, decido di fare una passeggiata in spiaggia per ammirare il manto di stelle che sta sopra di noi. Gli auguro buonanotte e mi incammino.
E’ buio pesto, nemmeno una lucetta, infatti la corrente elettrica viene fermata dopo le ventuno, tanto meglio: è l’ideale per guardare in su tutte le stelle che in Italia mai avevo potuto vedere.
Ad un tratto mi fermo e guardo in alto estasiato e ubriaco, giro lo sguardo e assorbo l’immagine nella mia mente: è bellissimo! Quand’ecco che qualcuno dall’oscurità salta fuori e mi batte la mano sulla spalla e mi dice : “Ehi, amico, come và?” è uno degli Americani della Guest House, alto non più di un metro e sessanta e tozzo di muscoli gonfi e innaturali.
Io sono colto un po’ alla sprovvista, non so bene cosa dire e sono anche leggermente spaventato: “Va tutto bene, grazie, guarda le stelle, guarda quante sono, è meraviglioso, no?” mi mostro amichevole, ma lui mi guarda male e grugnisce che le stelle sono belle ma le devo andare a guardare da un’altra parte…porca miseria, non capisco perché ce l’ha con me e faccio per andarmene quando mi dice qualcos’altro d’incomprensibile, poi mi guardo bene attorno ora che l’occhio s’è abituato all’oscurità
e mi accorgo che c’è una gallina Americana mezza nuda su un telo giallo a due metri da me: come ho fatto a non vederla non lo so, sta di fatto che spiarli mentre copulavano non era mia intenzione, così con la coda fra le gambe e la fama del guardone me ne torno in camera. Goodnight
Il sole non s’è ancora fatto vedere, ma una manciata di raggi di luce ne anticipa l’albeggiare.
E’ una mattina fresca, la marea è particolarmente bassa, molti Maori sono già in cammino verso la barriera corallina per raccogliere i frutti di mare rimasti all’asciutto.
L’aereo parte tra un paio d’ore dalla cortissima pista di Avarua, il mio stomaco si stringe come fa regolarmente quando me ne vado da un posto ad un altro, chissà quando tornerò, chissà dove sto andando?
L’alba fa quasi paura, scatto qualche foto pur sapendo che non renderanno le emozioni che sto provando, che quando a casa le mostrerò ad amici e parenti essi si limiteranno a dire “bello” o al massimo “bellissimo”, facendo crescere in me la compassione per chi vuole o deve restare a casa.
Fa paura quest’alba perché per la prima volta mi trovo ad osservare qualcosa di difficile da descrivere, che non mi stancherei mai di osservare ed allora vorrei restare ma poi mi chiedo quante altre cose del genere il mondo può offrirmi e giro le spalle al sole, mi carico lo zaino sulle spalle e mi incammino.
Lasse, il caro vecchissimo Lasse, sbuca da dietro l’angolo con un sacchetto in mano, mi domando se dentro non ci siano i suoi denti (magari li tiene lì anziché in bocca, una scelta come un’altra), mi fa notare che siamo gli unici due svegli a quell’ora per godere dell’alba : “Surf people! Non capiscono nulla, potevano starsene a casa loro!”. Mi fa morire dal ridere, uno dei migliori incontri dei miei viaggi.
“Me ne vado Lasse, adesso sei da solo tra i surf people, come farai?” gli domando scherzosamente.
“No problem” sorride soddisfatto ed io capisco cosa c’è nel sacchetto, “Un giovane Maori m’ha venduto questa ieri notte!”.
Marijuana, saranno venti grammi e mi chiedo come farà a fumarla tutta in un giorno visto che partirà l’indomani, poi lo fisso dritto negli occhi e vedo che ce la farà!
Spera di vedermi in India, anch’io spero di rivederlo da qualche parte nel mondo, lo saluto, lui congiunge le mani davanti al viso alla maniera Buddista o Hindu.”Ciao Lasse,meno male che c’eri anche tu!”
Prendo l’autobus in senso orario, in modo da fare il giro più lungo e poter godere d’un’ultima panoramica dell’isola, è ancora fresco e l’eccezionale bassa marea scopre pietre laviche altrimenti invisibili, Taakoka sembra più alto e più scuro ancora.
Anche stavolta è tempo di andarsene, c’è un vecchietto Maori all’aeroporto che da un palchetto di bambù suona l’uculele intonando canzoncine Polinesiane, solite storie d’un amore che va e viene, di un ritorno o di una partenza, un ultimo sguardo poi l’aereo s’infila in una nuvola e tutto svanisce all’istante.
Stavo osservando, 20 metri più su, i cocchi aggrappati alla palma che li aveva generati e, vedendone altri ingialliti a terra, mi chiedevo quante vittime abbiano mai causato : quanti decessi da noce di cocco? Cosa succede ad un cranio umano quando viene a contatto con una noce di cocco che cade perpendicolarmente su di esso dall’altezza di 20 metri? Ma se fosse così pericoloso come mai anche i locali si sdraiano con noncuranza sotto le palme? E se invece che sulla testa uccidendoti sul colpo, una noce di queste ti cade su un piede mentre sei sdraiato su una spiaggia deserta a chilometri dal villaggio più vicino che tra l’altro non ha nemmeno un’infermeria e le uniche medicine sono quelle lasciate dagli americani durante la guerra nel Pacifico??? Bè, in questo caso forse è meglio non pensarci,vada come vada!
Allora mi ridistendo sulla sabbia bianca della spiaggetta di Muri,non più lunga di quattro metri con la bassa marea; di fronte a me, all’interno della laguna, quattro isolotti : Motutapu, Oneroa, Koromiri (che mi sta proprio di fronte) e Taakoka; quest’ultimo è quello per cui provo più attrazione, infatti rimane più distante dai suoi tre fratelli maggiori e, a differenza degli altri, è di origine vulcanica.
E’ molto scuro, Taakoka, pietroni lavici tutt’intorno, neri, frammentati, niente sabbia o poca poca comunque, la giungla lo ricopre completamente ed il suo profilo, con le palme spennacchiate in cima, rende magistralmente l’immagine che molti di noi hanno delle isole del Pacifico Meridionale: palme, cielo azzurro, acqua trasparente, ecc…Taakoka è indubbiamente il più misterioso dei tre, durante la mia permanenza a Rarotonga mi sorprenderò più volte ad osservarlo minuziosamente dalla spiaggia di Muri e da altre angolazioni.
Lungo steso tra le palme, ogni tanto dò uno sguardo ai cocchi lassù e lancio loro un’occhiataccia come per far sapere che li tengo d’occhio, che non mi facciano brutti scherzi, che non sono interessato ad una sperimentazione empirica sull’effetto delle noci di cocco in caduta libera su un corpo umano.
Dopo una decina di minuti al sole, il turista medio in visita alle isole Cook (quindi anglosassone bianchiccio, grassoccio, scocciato e rivestito di crema solare ad alta protezione) dà forfait, si alza e si muove all’ombra, un Romagnolo medio può resistere almeno il triplo del tempo senza protezione, ma poi i raggi ultravioletti hanno la meglio e ci si sposta tutti in cerca d’ombra.
Così trovo riparo sulla terrazza della Guest House insieme ad un paio di ragazze che dividono la stanza con me, si ride, si scherza, ma non mi trovo molto in sintonia.
Un’Austriaca mi chiede se vengo da Rarotonga o da un’altra isola, m’ha visto così scuro e mi crede un Maori, le rispondo che vengo da ‘Atiu ma laggiù c’è stata una tempesta e tutto è distrutto e allora sono venuto nella capitale in cerca di fortuna.
C’è un Americano, molti (troppi) Australiani, poca Europa, ma ciò che mi disturba è il fatto che nessuna delle persone della Guest House mi incuriosisce, mi sento di non avere nulla da condividere con loro, ma sono arrivato da solo e stare da solo non mi preoccupa di certo ma mi piace incontrare gente che abbia delle storie da raccontare, viaggiatori o locali non mi interessa, purchè non debba sentire le solite chiacchiere da backpacker Inglese che s’è sparato tutti i vaccini possibili, è drogato di tavolette antimalaria e fa colazione con una fetta di pane tostato e una confezione non scaldata di spaghetti in lattina!!!
Basta non avere fretta e soprattutto non aspettarsi mai nulla e le situazioni più emozionanti si faranno vivere e le persone più interessanti verranno da te.
E’ molto caldo, umido, guardo in qua e in là, Taakoka è sempre lì, d’improvviso scorgo una figura sulla spiaggia che è appena sbucata da dietro un pietrone di lava raffreddatasi da qualche migliaio d’anni.
Lontano da me centocinquanta metri distinguo la sagoma di un uomo, molto magro con un bastone in mano per aiutarsi a camminare, ha la barba lunga diverse decine di centimetri, bianca, la carnagione molto scura ed è nudo! No, analizzo meglio, ha un perizoma minimale e una sacca a tracollo, nient’altro. Continua a camminare ed io lo osservo con maggiore dovizia : è Robinson Crusoe!
Allora dev’esserci il suo Uomo Venerdì da qualche parte, mi dico scherzosamente.
Mi passa di fianco, mi guarda con un sorriso sdentato dei più belli che abbia mai visto, ha gli occhi piccoli piccoli e azzurri come il cielo del pacifico e sembra che abbia raggiunto l’isola dopo almeno quattro mesi nell’oceano a bordo d’una zattera, faccio un cenno di saluto e lui contraccambia mostrandomi di nuovo la manciata di denti che ancora non l’hanno lasciato ma presto lo faranno.
Due ragazze inglesi coi fianchi lacerati dalla famigerata English Breakfast lo guardano con disgusto e disapprovazione, si dicono qualcosa sottovoce e ridacchiano, io provo gli stessi identici sentimenti…ma verso di loro.
In effetti tutti lo guardano, magari anche solo un’occhiata veloce, tutti si girano ma nessuno lo saluta, forse per timidezza, forse perché il “naufrago” è troppo strano, troppo diverso e soprattutto indossa quel perizoma che, devo ammettere, non lascia spazio all’immaginazione.
Lui non ci fa caso, si capisce che non gli importa un bel niente di ciò che la gente può pensare o vedere, mantiene quel sorriso beato che ho rivisto poi nelle statue del Budda nei templi del Sud-Est Asiatico e si infila nella sua camerata.
Come ogni giorno da molto tempo il Sole si preparò a tramontare ed io mi diressi dall’altra parte dell’isola, ad ‘Arorangi, per assistere alla tragedia di colori che ci regala la luce quando si tuffa nell’Oceano Pacifico.
Percorrendo l’unica strada asfaltata dell’isola, la Ara Tapu (o Coastal Road) che segue la costa, si gode di scorci emozionanti e si passa vicino alle case dei locali, alcune in muratura ma per lo più semplici baracche di legno e lamiera, facili da ricostruire in caso di cicloni o tempeste.
I Maori sono un bel popolo malgrado molti fisicamente si lascino un po’ andare; come disse il pastore della Matavera CICC (Cook Islands Christian Church) dopo avere offerto agli stranieri che avevano assistito alla messa un banchetto da re : “Mangiate tutto ciò che volete, se avanza qualcosa portatelo con voi. Non preoccupatevi, noi abbiamo tanto cibo, gli abitanti delle Isole Cook non moriranno mai di fame…noi moriamo perché mangiamo troppo!”.
Niente di più vero, molti degli abitanti sono sovrappeso, è un problema, questo, esteso a molte isole del Pacifico, c’è chi incolpa le troppe importazioni di beni e l’introduzione di moderne attrezzature per la pesca e l’agricoltura ed il conseguente calo dell’attività fisica lavorativa, chi invece crede più semplicemente che la vita su un’isola Polinesiana renda le persone più spensierate e rilassate e meno adatte a lavori frenetici, quale sia la causa, il risultato è lo stesso : molti Maori sono grassi e si piacciono così.
Il tramonto non mi deluse, rimasi qualche minuto a riflettere guardando il bianco frastuono delle onde che s’infrangono sulla barriera corallina nel nero della notte oceanica.
Sull’isola, essendoci appunto una sola strada asfaltata, esistono solo due linee di autobus: una gira in senso orario, l’altra in senso antiorario. Così l’indomani di buonora salgo sul Counter-Clockwise Bus per andare a fare un po’ di spesa al Punanga Nui Market, il mercato della capitale delle Isole Cook: Avarua.
Il biglietto costa un Dollaro Neozelandese, ma il conducente accetta anche Dollari Americani dai turisti Statunitensi dicendo sorridente : “Certo che li accetto, un dollaro per un dollaro, non c’è differenza!”. La differenza c’è visto che il Dollaro Neozelandese vale molto meno di quello Americano, ma trovo giusto che il Maori approfitti dell’ignoranza dei turisti, soprattutto se Americani.
Al mercato, tra l’odore acre di frutta marcia, si vende di tutto un po’ e si regalano sorrisi, quei sorrisi Maori stampati su faccioni paffuti di una simpatia irresistibile, impossibile non scoppiare a ridere incrociando lo sguardo d’un Maori sorridente.
Giro e rigiro per ore, poi quando il sole brucia a picco sulle teste e l’umidità si fa insopportabile riprendo il bus, assisto ancora al giochetto del “dollaro per dollaro” e arrivo alla Guest House.
Lì vedo Robinson Crusoe sulla terrazza da solo che legge un libro e, preferendolo alle chiacchiere da surfista Australiano, mi avvicino curioso come una scimmia, come se sapessi che quell’ometto ha molte cose da raccontare.
Scambiamo qualche battuta, gli offro del latte di cocco e qualche banana che lui gradisce molto, ogni tanto si lamenta dei suoi compagni di stanza, definendoli giovani Americani maleducati e irrispettosi: “Entrano ed escono coi piedi sporchi e bagnati, usano la toilet della mia camera anche se dormono in un’altra! Io non capisco, NON CAPISCO! Io non so niente di questi backpacker, in India non è così, ho la mia camera e faccio ciò che voglio!”.
Mentre parla in un inglese incerto non posso evitare di guardarlo in faccia e studiarne i lineamenti: deve avere più di sessant’anni, la faccia tranquilla nonostante le lamentele, il bastone poggiato al suo fianco è intarsiato con strani riccioli e sulla sommità sono legate delle cordelle con perline e conchiglie, al collo porta un medaglione col simbolo della pace che ha anche tatuato sul petto, un altro tatuaggio sbiadito è sul braccio sinistro e raffigura Topolino che fuma una canna : “Questo è il mio preferito”, afferma, “l’ho fatto a San Francisco nel ’67!”.
Poi mi mostra il suo tesoro: un sacchetto di conchiglie che ha trovato in spiaggia, mi colpiscono in particolare delle strane conchiglie lunghe a forma d’ago verdi, bianche e rosa, da una parte a punta dall’altra tondeggianti con un puntino nero simile ad un occhio (scoprirò poi che sono aculei di un riccio di mare che con la corrente sbattono tra loro e producono una melodia armoniosa); nel sacchetto c’è un altro sacchetto e lui me lo mostra sorridendo: “Questa è Marijuana che avevo dimenticato in un angolo dello zaino chissà quando e l’ho portata fin qui, pensa se la trovavano all’aeroporto!!!”, mentre mi fa questa confessione la sua faccia si illumina di soddisfazione.
Dopo altri cinque minuti di chiacchiere sulla terrazza fronte mare, l’ometto si congeda dicendo che è vecchio e vuole riposare e che quando avrò la sua età capirò la vera necessità del riposo. Ci salutiamo.
L’unico modo per attraversare l’isola da Nord a Sud è con le proprie gambe seguendo il Cross-Island Track che parte poco fuori Avarua e termina alle Wigmore’s Waterfall quattro ore dopo passando per la sommità del Te Rua Manga (413 m slm), un sentiero non segnato tra la giungla tropicale con, a tratti, il fango fino alle caviglie.
Poco dopo l’alba raggiungo la strada e, non essendo ancora gli autobus in servizio, mostro il pollice da autostop già rodato in Nuova Zelanda; passa una manciata di minuti e un pick-up della polizia si ferma.
Abituato al genere di polizia che vieta di tutto un po’, vedendo l’agente rallentare penso velocemente ad una scusa, ma la vista del faccione Maori mi tranquillizza all’istante: sarà proprio lui a “scortarmi” sino all’inizio del sentiero convincendomi che la vita su un’isola polinesiana offra un approccio differente verso il prossimo rispetto alla diffidenza occidentale.
Il sentiero, come anticipato, parte da Avarua. Scendo e saluto l’agente che non è un semplice agente bensì il capo del Dipartimento di Polizia delle Isole Cook che indossa la camicia blu della divisa con un paio di bermuda viola a fiorellini bianchi. Decisamente originale.
Cammino per i primi dieci minuti su una strada di terra rossa tra belle villette nascoste tra alberi mai visti prima, poi comincio a sentire in sottofondo un ronzio e di lì a poco scorgo alla mia destra l’origine del ronzio che adesso s’è trasformato in un rombo assordante: è il generatore a gasolio che fornisce la corrente elettrica non solo a Rarotonga ma anche alle altre isole abitate.
E’ immenso, puzza e urla, è brutto, non c’entra nulla colle palme e gli orti di pomodori che gli stanno attorno ma purtroppo è l’unico modo che gli isolani abbiano trovato per godere degli agi della corrente elettrica. Il gasolio arriva una volta al mese dalla Nuova Zelanda il cui governo ne sostiene le spese essendo le Isole Cook un protettorato dei Kiwi.
Me lo lascio alle spalle e provo a dimenticarlo, continuo a camminare nella giungla, il sentiero non è molto difficile se non a tratti a causa del fango, conquisto la cima del Te Rua Manga dopo tre ore e mi gongolo lì sopra godendo della vista a trecentosessanta gradi concedendomi una pausa sigaretta.
Mi rimetto in moto e dopo aver incontrato strani insetti tra cui dei millepiedi giganti che avevo visto solo nei documentari in tv e dopo essermi perso almeno due volte, giungo alle Wigmore’s Waterfall, agognata meta visto che sono sudatissimo e infangato dalla testa ai piedi.
Alcuni giovani Maori si sfidano in tuffi acrobatici, scambiamo qualche battuta, dò un paio di bracciate in acqua, temporeggio davanti a questo spettacolo naturale poi i giovani Maori mi accompagnano alla Guest House in motorino. Nessuno di loro lavora: da mangiare ce l’hanno, pescano, vanno alla cascata, girano per la laguna colla loro canoa, di andare in Nuova Zelanda in cerca di fortuna come fanno molti loro connazionali non se ne parla proprio, stanno benone e allora perché lavorare? Il ragionamento non fa una piega.
Ho fatto scorta di birre Cooks imbottigliate in bottiglie Heineken perché qua si ricicla tutto (non c’è spazio per una discarica) e la sera vado a sedermi con il vecchio sulla terrazza.
Questa volta mi presento e scopro che si chiama Lasse, è Svedese di un piccolo paese a sud di Stoccolma. Beve tanta birra e fuma una sigaretta dietro l’altra dispiacendosi di non poter fumare solo erba perchè non ne ha trovata. Parliamo. Vicino a noi alcuni anglosassoni fanno rumore, le ragazze mi ricordano il pollaio a casa d’un mio amico in Italia, i ragazzi gonfi di muscoli dicono stupidaggini e si fanno sempre più grossi, il solo sentirli parlare comincia a disturbarmi seriamente, molti di loro sono a migliaia di chilometri da casa e sono riusciti a ricreare lo stesso ambiente, a fare le stesse cose, a parlare la stessa lingua,a stare solo con gente del loro paese e a rivolgersi ai non anglosassoni aspettandosi che l’inglese sia parlato e capito da tutti indipendentemente dalla provenienza, non accettano altre lingue, altri comportamenti, il loro modo di fare è quello giusto, gli altri sono diversi, strani e da cambiare.
Me ne convinco sempre di più di minuto in minuto; una ragazza conosciuta il giorno prima, Americana, mi invita al loro tavolo, poi dice qualcosa, non capisco, troppo veloce, se per esempio una parola è composta da cinque lettere mi sembra giusto pronunciarle tutte e cinque, lei no, ne dice due strascicate dal suo forte maledettissimo accento, come se io parlassi in dialetto Romagnolo ad un turista Americano che sta studiando l’Italiano. Lo trovo irrispettoso, mi irrito, non ne voglio sapere di unirmi a loro : “No, grazie…io sto con Lasse” le dico gesticolando all’ Italiana indicando il nuovo amico. L’ha capita e se ne va. La seguo con lo sguardo, dice qualcosa ai suoi amici e quando ricomincia a chiocciare riprendo il mio colloquio con Lasse.
Poco più che ventenne si imbarcò su un cargo e navigò per gli oceani, un lavoro molto duro con poche soddisfazioni, a parte il poter assistere ad ogni alba e ad ogni tramonto di ogni singolo giorno sul mare, dopo cinque anni di tale vita, il giovane Lasse decise di smettere di lavorare. Erano gli anni sessanta ed il movimento Hippy al suo apice accoglieva discepoli da tutto il mondo tra cui appunto Lasse il quale raggiunse San Francisco, in California, dove migliaia di giovani hippies si incontravano, si conoscevano, si iniziavano alla droga e poi da lì si spostavano ancora soprattutto verso l’India e il Nepal, paese visto come fulcro della spiritualità ed in particolare dove molte delle droghe illegali in occidente erano legali e di facile reperibilità.
Lasse torna in Europa per ripartire quasi subito; da solo, in autostop, attraversa Francia, Germania, Austria, Ungheria, Romania, Bulgaria, Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan e finalmente arriva in India.
Si sofferma a parlare dell’ospitalità Afgana (inimmaginabile al giorno d’oggi per chi non c’è mai stato e tutto ciò che sa dell’Afghanistan l’ha imparato dalla tv), della gente che lo accoglieva nella loro tenda ed offriva cibo ed oppio, delle montagne verdi ed i sorrisi gentili.
Sull’India, Lasse lo Svedese potrebbe scrivere un libro, dopo la prima volta c’è tornato tutti gli anni a seguire o quasi, per vivere vendeva hashish ai turisti, si è convertito all’Hinduismo, una religione che non può spiegarmi perché “E’ troppo, è tutto” dice.
E’ diventato un Sadu, un uomo che non possiede nulla, vive di elemosina, indossa stracci, si affida al buon cuore della gente.
Una volta un cane l’ha morsicato e, vista la sua condizione di Sadu, è stato portato in ospedale e curato gratis.
Io gli chiedo tutto, la mia curiosità forse sta andando oltre le buone maniere.
Lasse non è mai stato in Italia e nemmeno ha viaggiato in Svezia, il suo paese, dice che lo tiene per quando non potrà più camminare e dovrà usare la sedia a rotelle. Ridiamo.
Ora che è vecchio torna tutte le estati a casa, dove vive in una casa/baracca nel cui giardino coltiva Marijuana. Afferma che lo conoscono tutti in Svezia, ne ho la conferma quando tornato in Nuova Zelanda incontro un gruppo di Svedesi che lo conoscono.
I suoi compaesani, amandolo e rispettandolo, due anni prima fecero una colletta per pagargli il viaggio in India, lui sorride e mi confessa che non ha mai dato niente a loro in cambio se non raccontare la sua vita…come se fosse poco!
Non gli piace molto Rarotonga, ammette che sia un posto meraviglioso dal punto di vista naturale, ma ci sono troppi turisti che lui non capisce e troppi Surf People, come definisce con sdegno gli Australiani palestrati che stanno nella Guest House.
Mi trovo in qualche modo d’accordo ed allora brindiamo e brindiamo fino a notte fonda e lui non smette mai di raccontare fino a che non si congeda, vista l’ora, ricordandomi quanto sia importante il riposo per un vecchio come lui.
Agli occhi d’un occidentale molte cose paiono strane sull’isola di Rarotonga, una di queste è il rapporto con la morte che gli isolani hanno: girando in lungo e in largo per la strada asfaltata e arrampicandosi su per le strade sterrate che puntano al centro dell’isola si nota nei giardini di molte case un piccolo cimitero, ossia qualche lapide antica o recente, magari ricoperta di erbacce, magari distrutta, comunque vicina alle case.
Ogni famiglia infatti crea nel proprio terreno un cimitero per familiari e amici cari, la morte non viene nascosta come da noi tra alte mura isolate.
Ciò è dovuto a due motivi principali: la scarsità di spazio (l’isola ha una circonferenza di 54 Km) non consente, così come la costruzione di una discarica, di erigere alcun camposanto, eccetto quelli piccoli già esistenti, e le origini animiste dei Maori seppur mischiate al cristianesimo, consentono un approccio di accettazione verso la morte simile a quello Buddista e Induista.
Sono anche piacevoli da ammirare, queste lapidi, ci vuole un certo gusto del macabro, ma talune sono vere opere d’arte di corallo bianco intarsiate in madreperla: dei monumenti alla morte.
Altra particolarità dell’isola: il Parlamento, perché Avarua è la capitale delle Cook e pertanto vi risiede il Parlamento.
Eretto nel 1974 come ostello per ospitare i costruttori Neozelandesi dell’aeroporto, gli uffici del Primo Ministro e degli altri ministri sono situati nelle vecchie camere da letto; da fuori, se non ci fosse scritto su un cartellone di compensato “Parliament of the Cook Islands”, appare all’osservatore come un qualsiasi capannone bianco col tetto di paglia e legno.
La mia partenza è ormai imminente, diciassette giorni a Rarotonga sono sembrati un’infinità, al ristorante Paulina’s Polinesian Restaurant, che è tra l’altro un ottimo ristorante con pochi piatti ma buoni e a buon prezzo in centro ad Avarua, fu proprio Paulina in persona, una grassa Maori con le mani sempre sporche e il sorriso tatuato in faccia, a dirmi che in diciassette giorni sull’isola avrei potuto sposarmi, fare un figlio e divorziare volendo sottolineare la lentezza delle giornate in un posto perso in mezzo a migliaia di chilometri quadrati d’acqua.
Alla Guest House, Lasse è sempre sul terrazzo a bere e fumare, mi avvicino per avvisarlo della mia partenza l’indomani, lui si compiace per aver trovato in spiaggia la statuetta di Tangaroa, la divinità Maori, il padre degli Dei per molte religioni Polinesiane, e ridiamo per le enormi dimensioni del pene della statuetta lignea.
Il vecchio Lasse partirà il giorno dopo di me ma dice che ha già salutato il suo bastone che l’ha aiutato qui sull’isola gettandolo nell’oceano, io mi meraviglio a sentire un uomo che ringrazia un bastone, non so se sia un esagerato rispetto per la natura o una semplice stupidaggine, per certo fa parte del personaggio di Lasse così ricco di storia e spiritualità.
E’ diretto in Nuova Zelanda anch’egli, ma nell’Isola del Sud, io invece torno ad Auckland la piovosa.
Pertanto spera di vedermi un giorno in India e lo spero anch’io.
Ci facciamo compagnia per qualche ora, poi io, ubriaco, decido di fare una passeggiata in spiaggia per ammirare il manto di stelle che sta sopra di noi. Gli auguro buonanotte e mi incammino.
E’ buio pesto, nemmeno una lucetta, infatti la corrente elettrica viene fermata dopo le ventuno, tanto meglio: è l’ideale per guardare in su tutte le stelle che in Italia mai avevo potuto vedere.
Ad un tratto mi fermo e guardo in alto estasiato e ubriaco, giro lo sguardo e assorbo l’immagine nella mia mente: è bellissimo! Quand’ecco che qualcuno dall’oscurità salta fuori e mi batte la mano sulla spalla e mi dice : “Ehi, amico, come và?” è uno degli Americani della Guest House, alto non più di un metro e sessanta e tozzo di muscoli gonfi e innaturali.
Io sono colto un po’ alla sprovvista, non so bene cosa dire e sono anche leggermente spaventato: “Va tutto bene, grazie, guarda le stelle, guarda quante sono, è meraviglioso, no?” mi mostro amichevole, ma lui mi guarda male e grugnisce che le stelle sono belle ma le devo andare a guardare da un’altra parte…porca miseria, non capisco perché ce l’ha con me e faccio per andarmene quando mi dice qualcos’altro d’incomprensibile, poi mi guardo bene attorno ora che l’occhio s’è abituato all’oscurità
e mi accorgo che c’è una gallina Americana mezza nuda su un telo giallo a due metri da me: come ho fatto a non vederla non lo so, sta di fatto che spiarli mentre copulavano non era mia intenzione, così con la coda fra le gambe e la fama del guardone me ne torno in camera. Goodnight
Il sole non s’è ancora fatto vedere, ma una manciata di raggi di luce ne anticipa l’albeggiare.
E’ una mattina fresca, la marea è particolarmente bassa, molti Maori sono già in cammino verso la barriera corallina per raccogliere i frutti di mare rimasti all’asciutto.
L’aereo parte tra un paio d’ore dalla cortissima pista di Avarua, il mio stomaco si stringe come fa regolarmente quando me ne vado da un posto ad un altro, chissà quando tornerò, chissà dove sto andando?
L’alba fa quasi paura, scatto qualche foto pur sapendo che non renderanno le emozioni che sto provando, che quando a casa le mostrerò ad amici e parenti essi si limiteranno a dire “bello” o al massimo “bellissimo”, facendo crescere in me la compassione per chi vuole o deve restare a casa.
Fa paura quest’alba perché per la prima volta mi trovo ad osservare qualcosa di difficile da descrivere, che non mi stancherei mai di osservare ed allora vorrei restare ma poi mi chiedo quante altre cose del genere il mondo può offrirmi e giro le spalle al sole, mi carico lo zaino sulle spalle e mi incammino.
Lasse, il caro vecchissimo Lasse, sbuca da dietro l’angolo con un sacchetto in mano, mi domando se dentro non ci siano i suoi denti (magari li tiene lì anziché in bocca, una scelta come un’altra), mi fa notare che siamo gli unici due svegli a quell’ora per godere dell’alba : “Surf people! Non capiscono nulla, potevano starsene a casa loro!”. Mi fa morire dal ridere, uno dei migliori incontri dei miei viaggi.
“Me ne vado Lasse, adesso sei da solo tra i surf people, come farai?” gli domando scherzosamente.
“No problem” sorride soddisfatto ed io capisco cosa c’è nel sacchetto, “Un giovane Maori m’ha venduto questa ieri notte!”.
Marijuana, saranno venti grammi e mi chiedo come farà a fumarla tutta in un giorno visto che partirà l’indomani, poi lo fisso dritto negli occhi e vedo che ce la farà!
Spera di vedermi in India, anch’io spero di rivederlo da qualche parte nel mondo, lo saluto, lui congiunge le mani davanti al viso alla maniera Buddista o Hindu.”Ciao Lasse,meno male che c’eri anche tu!”
Prendo l’autobus in senso orario, in modo da fare il giro più lungo e poter godere d’un’ultima panoramica dell’isola, è ancora fresco e l’eccezionale bassa marea scopre pietre laviche altrimenti invisibili, Taakoka sembra più alto e più scuro ancora.
Anche stavolta è tempo di andarsene, c’è un vecchietto Maori all’aeroporto che da un palchetto di bambù suona l’uculele intonando canzoncine Polinesiane, solite storie d’un amore che va e viene, di un ritorno o di una partenza, un ultimo sguardo poi l’aereo s’infila in una nuvola e tutto svanisce all’istante.
4 commenti:
Bella Jack!Gran bel racconto,c'è dentro tutto stesso.
Un saluto
Bravo gec!! gran bel racconto!!...visto che ormai farai l'hippy finito per il resto dei tuoi giorni potresti scrivere le tue avventure...sei bravo a scrivere!
PS:....dovevi menare la mezza sega americana e presentare il lombrico romagnolo alla gallina!!..magari chiamavi pure Lasse!
Saluti
Alcuni lettori si sono lamentati per la presenza di alcuni errori ortografici, lo scrittore se ne dispiace e provvederà al più presto ad un'attenta correzione.
Dopo un'attenta revisione del testo è stato riscontrato quanto segue: non sono presenti alcuni errori ortografici nel testo bensì è stata l'ignoranza del lettore a trovarne alcuni.
grazie
Posta un commento